martedì 19 novembre 2013

luciferoflegreo: L’ANGOLO della CULTURASTORIA FLEGREA (e non solo)...

luciferoflegreo: L’ANGOLO della CULTURASTORIA FLEGREA (e non solo)
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: L’ANGOLO della CULTURA STORIA FLEGREA (e non solo) È quasi un luogo comune, nelle città flegree, che la nostra terra non abbia part...
L’ANGOLO della CULTURA
STORIA FLEGREA (e non solo)


È quasi un luogo comune, nelle città flegree, che la nostra terra non abbia partorito personaggi politici di rilievo nazionale. Qualcuno forse ricorda che nacque a Pozzuoli Guglielmo Giannini, fondatore prima del periodico  intitolato “L’Uomo Qualunque”e poi del partito politico famoso e famigerato del “Fronte dell’Uomo Qualunque” (F.U.Q.), partito che ebbe un notevole successo nell’Italia del primissimo dopoguerra (riuscì a far eleggere anche diversi deputati all’Assemblea Costituente). Ma - a parte il fatto che non è da menar gran vanto dell’aver dato i natali al padre di un movimento che, per la sua tendenza a semplificare problemi complessi,  diede origine al termine usato dispregiativamente in politica di “qualunquista” – Giannini nacque a Pozzuoli ma crebbe a Napoli. La memoria storica della nostra gente, però, non va quasi mai più indietro di ciò che hanno visto e ci hanno raccontato i nostri nonni, raggiunge cioè, al massimo, la grande Guerra del 1915-18. Abbiamo invece avuto da queste parti uno dei protagonisti della vita politica nazionale degli anni precedenti l’Unità e, soprattutto, dei primi decenni di vita del nostro stato. Si tratta di Antonio Scialoja, procidano (nacque soltanto, per motivi accidentali, a San Giovanni a Teduccio), deputato eletto nel collegio uninominale di Pozzuoli alle elezioni del 1848, durante la breve esperienza costituzionale del Regno delle due Sicilie del 1848 – 49, ma soprattutto deputato per più legislature, sempre del collegio di Pozzuoli, ministro dell’importantissimo dicastero delle finanze in un anno di cruciali decisioni, anche in economia, quale fu il 1866 e fra i principali attori della nostra vita politica dell’epoca.
Conobbi l’esistenza di questo personaggio, illustre ma a me, all’epoca, sconosciuto, quando mi fu proposto come argomento della tesi di laurea dal titolare della cattedra di Storia Contemporanea della facoltà di Scienze Politiche, il compianto prof. Mendella. Dovendo laurearmi piuttosto celermente, la tesi, nelle intenzioni mie e del prof. Mendella, doveva essere solo un primo approccio a studi più approfonditi sullo stesso Scialoja. I casi della vita mi allontanarono dal campo delle ricerche storiche portandomi verso un mestiere in un campo del tutto diverso. Giunto all’età della pensione ho pensato per un po’ di riprendere le mie giovanili ricerche. Ho dovuto però arrendermi perché, non avvezzo agli studi scientifici, mi sono imbattuto  su di una mole immensa di libri di Scialoja (fu infatti il maggiore economista italiano degli anni 1850-70) e di libri su Scialoja (presso l’Università di Siena vi è addirittura il fornitissimo “Archivio Scialoja”). Fuori della nostra provincia dunque Scialoja è un personaggio ben noto agli esperti del ramo, per cui ho tratto la conclusione che, anche “post mortem”, “nemo propheta in patria”! Ho ripescato però una mia “comunicazione” inserita nel volume “La Storia di Pozzuoli dalle origini all’età contemporanea” a cura del prof. Antonio Alosco, profondo conoscitore della storia contemporanea della nostra città e tra i pochi che trattano la stessa su basi scientifiche. Si tratta degli “Atti del Convegno 3-4 maggio 1991” tenuti presso la “Biblioteca Civica Puteolana” e organizzata dal Comune di Pozzuoli – Assessorato alla Cultura e che – con pochissimi e marginali ritocchi – mi permetto di riproporvi.



LUCIO D’ISANTO
Antonio Scialoja,
I° deputato del Collegio di Pozzuoli


             Antonio Scialoja nacque il 31 luglio 1817 nell’allora piccolo comune di San Giovanni a Teduccio, presso Napoli, da Aniello, che ivi era Ispettore di Pubblica Sicurezza, e da Raffaella Madia. Il nome di Antonio gli fu dato in memoria di uno zio che era stato tra i martiri della Repubblica Partenopea del 1799; la sua era infatti una famiglia di tradizioni liberali. Originari della Spagna, gli Scialoja vennero in Italia
nella prima metà del XVI secolo, all’epoca dei primi viceré. Imparentatisi con la famiglia Scotti di Procida e, avendo ivi ereditato alcuni beni, vi si trasferirono. La famiglia Scialoja fu resa illustre dal giureconsulto Angelo, principe del foro napoletano, e da Antonio Maria, conosciuto per aver pubblicato, con un cugino, un’opera “corografico - storica" su Miseno e su Cuma nonché descrizioni sulla villa di Cicerone e sui Campi Flegrei. Di modeste possibilità economiche, perché i beni della sua famiglia erano stati confiscati fin dalla prima restaurazione borbonica del 1799, trascorse la sua giovinezza a Procida, dove venne educato da uno zio che lo indirizzò agli studi umanistici. Si formò soprattutto con la lettura degli illuministi napoletani del ‘700. L’autore che maggiormente lo influenzò fu il Genovesi, le cui opere, come egli in seguito avrà a dire, gli inculcarono l’amore per "l’economia sociale" (forse con un po’ di esagerazione, lo storico del socialismo L. Bulferetti lo definì “uno dei primi liberalsocialisti”, sia pure non nel senso della molto successiva corrente di pensiero, dal nome analogo, del filosofo Guido Calogero e dei fratelli Rosselli)[1]. Frutto dei suoi studi economico-filosofici fu la sua opera giovanile, pubblicata nel 1840: “Principi di economia sociale esposti in ordine ideologico". L’opera meravigliò il mondo scientifico, soprattutto tenendo conto che era stata scritta da un giovane di soli ventitre anni, e taluno sospettò che dietro il nome dell’autore si celasse qualche illustre scrittore. Quest’opera gli valse però anche la diffidenza del governo borbonico che credeva, giustamente dal suo punto di vista, che, come gli altri economisti, Scialoja si avvalesse delle forme scientifiche e del tecnicismo economico per diffondere i principi liberisti e liberali. Nel ’44, inviato per conto di talune case commerciali napoletane  in Francia ed in Inghilterra, ebbe modo di conoscere e farsi conoscere  negli ambienti scientifici e liberali di oltralpe.  Nel 1845, essendogli stato preferito Placido De Luca al concorso per  la Cattedra di Economia Politica dell’Università di Napoli, emigrò in  Piemonte dove Cesare Alfieri, supremo magistrato della Riforma  degli Studi, lo chiamò a ricoprire la stessa cattedra nella Università di Torino[2].  Si dice che il Borbone, parlandone con il Santangelo,  Ministro dell’Interno, abbia asserito che di avere tra i piedi un "pennarulo" (come “re bomba” definiva gli intellettuali) di meno non c’era che da rallegrarsi[3]. Lo Scialoja tornò a Napoli dopo i moti del ’48.  Concessa infatti la Costituzione dal riluttante Ferdinando II, dopo due governi di transizione  Serracapriola, si formò il Gabinetto Troja, ben visto a Torino perché interpretato come un decisivo evolversi del Regno delle due Sicilie  verso il liberalismo. Di questo governo Scialoja divenne Ministro dell’Agricoltura e del Commercio, e come tutti i componenti di quel  governo partecipò alle elezioni che si tennero successivamente e risultò eletto  nel Collegio di Pozzuoli.  Scialoja fu cosi tra coloro che ebbero il difficile compito di fare da tramite tra un Parlamento piuttosto avanzato ed il Sovrano che, con  le Guardie Militari e Sanfediste, non aspettava altro che il momento  opportuno per sbarazzarsi della Costituzione.   Abrogata di fatto (formalmente solo “sospesa”) nel ’49 la Costituzione, a seguito di un ennesimo tradimento della dinastia borbonica, Scialoja venne arrestato il  26 Settembre dello stesso anno e tradotto nel carcere di Santa Maria Apparente in Napoli.    In un processo, giustamente ritenuto scandaloso in Europa, furono sottoposti a giudizio con l’accusa di lesa maestà, otto ex - ministri e 44 ex-deputati. Tra gli imputati Silvio Spaventa venne condannato a morte e  Scialoja a nove anni di reclusione perchè accusato, tra l’altro, di aver sollecitato il Dupont a persuadere il Re a sostituire, nella formula di giuramento della Costituzione da parte di Ferdinando II (spergiuro come il suo avo), alla parola "svolgere" quella di "modificare" lo Statuto (in senso liberale)[4].  Il sovrano, sotto la pressione dell’opinione pubblica internazionale,  commutò la pena di morte per Silvio Spaventa in ergastolo, e quella di  nove anni di reclusione per Scialoja nell’esilio perpetuo dal Regno, per cui questi fu liberato il 25 ottobre 1852 dopo tre anni di carcere. Scelta, per ovvi motivi, Torino come sede dell’esilio, trovò ivi la cattedra di Economia Politica ormai occupata. Fu Cavour, allora Ministro dell`Agricoltura del Piemonte e che lo stimava molto, che gli venne in aiuto, nominandolo il 3 luglio 1853 “consultore legale" nell’Ufficio “del Catasto di Piemonte". In questo periodo, oltre a collaborate con Cavour nella Riforma Agraria, fu autore di vari testi di diritto e di economia di grande importanza. Appoggiò strenuamente, come saggista e come collaboratore de "ll Risorgimento” e de "Il Secolo XIX", le idee liberiste di Cavour, e, divenuto questi Presidente del Consiglio, ebbe anche incarichi diplomatici ufficiosi di notevole rilievo[5]. Soprattutto scrisse un’opera fondamentale per comprendere come il Piemonte, in pochi anni, fosse divenuto uno dei paesi con un’economia tra le più avanzate d’Europa mentre il Regno delle due Sicilie, che Ferdinando II voleva estraniare dal mondo moderno e “chiuso tra l’acqua santa (lo Stato Pontificio) e l’acqua salata” e dunque restava tra i più arretrati: “Note  e confronti dei bilanci del Regno di Napoli e degli Stati Sardi". In questo opuscolo previde con esattezza ciò che sarebbe avvenuto il giorno dell’unificazione. Sostenute soltanto da un ferreo regime doganale che le teneva al riparo da qualsiasi concorrenza, le industrie meridionali sarebbero state spazzate via da quelle piemontesi che, grazie al regime competitivo instaurato da Cavour, ed al libero scambio, fornivano prodotti migliori e più a buon mercato. Poi, sempre in quest’opera, Scialoja metteva in risalto come il bilancio delle due Sicilie fosse sì in attivo ma solo perché i governi borbonici tendevano a tesaurizzare anziché investire mentre il Piemonte cavouriano chiudeva in deficit perché investiva in ferrovie e ammodernamento dell’agricoltura, cioè per arricchire il paese.  Scialoja fu poi Ministro delle Finanze nel periodo della Dittatura di Garibaldi e, tornato questi a Caprera, fu confermato in tale incarico nel Consiglio di luogotenenza presieduto da Luigi Carlo Farini. Proclamata l’Unita d’Italia fu eletto deputato (le elezioni si tenevano allora con il sistema uninominale) nel Collegio di Pozzuoli e fu pertanto il primo rappresentante della nostra città nel parlamento dell’ Italia Unita. Fu, successivamente, nominato da Cavour, e, dopo la morte di questi confermato dal Ricasoli, Segretario Generale del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio e con tale incarico concluse, come capo della delegazione del governo italiano, il primo importante accordo commerciale in campo internazionale dell’ltalia Unita, quell’ accordo con la Francia che diede ai vini meridionali (soprattutto pugliesi) un’importantissimo sbocco commerciale in Francia e che verrà abbandonato soltanto quando, dopo l’occupazione francese della Tunisia, scoppierà tra Italia e Francia la cosiddetta “guerra delle tariffe” negli anni ’80 dell’800. Collaboratore poi di Quintino Sella, l’uomo della "economia fino all’osso", fu nominato da questi Presidente di Sezione della Corte dei Conti. Ma fu quando, in una situazione economica disastrosa, bisognava far fronte alle spese della III guerra d’Indipendenza, nel 1866, che Scialoja ebbe il suo incarico più importante. Formatosi allora il Ministero La Marmora, la poltrona scottante del Ministero delle Finanze fu rifiutata da Sella e da Minghetti e Scialoja che era, come si direbbe oggi, "un tecnico" (era infatti con il Ferrara considerato il maggior economista dell’epoca) fu catapultato al vertice del Ministero delle Finanze. A lui toccò, quindi, l’impopolarissima, per le convinzioni dell’epoca tutte “laisser faire, laisser passer”, decisione della introduzione del corso forzoso della lira, decisione coraggiosa che permise all’Italia di affrontare e superare le spese dell’Unità (guerra di Crimea e guerre di indipendenza oltre all’accollarsi dei debiti di tutti gli stati preunitari) e quelle aggiuntive della nuova guerra con l’Austria[6]. Vigeva allora, sia nel mercato interno sia soprattutto per i pagamenti internazionali, il “Gold Standard”, cioè tutta la massa monetaria cartacea doveva essere coperta dall’oro depositato nelle banche autorizzate ad emettere moneta (all’epoca in Italia ve ne era più di una). L’introduzione del “corso forzoso” (o, come si diceva allora, “forzato”) della Lira, decisa appunto da Scialoja, svincolava la moneta cartacea (che pertanto diveniva “banconota”) dalla parità aurea e permetteva così di stampare moneta (è la soluzione cui oggi ricorrono molti stati, per es. gli USA di Obama e il Giappone, per vivificare l’economia nei periodi di crisi). L’Italia riuscì così a onorare i propri impegni verso i fornitori e creditori interni e sul mercato internazionale mentre le conseguenze inflattive, che sempre comporta l’incremento del circolante medio, furono attenuate dall’esodo di valuta per l’acquisto di oro verso l’Australia e la California ove erano stati scoperti ricchi giacimenti del prezioso metallo. Successivamente Scialoja ebbe lunghe polemiche con il Ferrara, l’altro grande economista dell’epoca. Egli era infatti capofila della scuola liberista, Ferrara di quella protezionista che, poiché il protezionismo vigeva soprattutto negli imperi centrali, venne definita sprezzantemente “Lombardo- Veneta"[7]. Successivamente, già ormai ammalato, si recò in Egitto dove divenne, nel 1874, consigliere in materia finanziaria del Khedivé d’Egitto,  Ismail Pascià, che, impregnato di cultura europea, tentò di riordinare in senso occidentale le finanze del suo Stato. Aggravatosi lo stato di salute nel 1877, alla metà di Agosto, tornò a Procida dove morì il 13 Ottobre. Più tardi, grazie alle pressioni del Comune di Procida e di alcuni politici suoi  amici (Alfieri, Berti, Saracco, Boselli, Visconti Venosta, Luzzatti,  Cambrai-Digny, Bonghi, Cosenz, Salandra ed altri), gli fu elevato il  monumento che ancora oggi possiamo ammirare nell’isola di Procida[8].






[1] C. DE Cesare, La Vita, i tempi e le opere di A. Scialoja, Roma 1879.
[2] E. Pessina, Antonio Scialoja, in “Il Pungolo”, Napoli 1897; R. Bonghi, Antonio Scialoja, in “Ritratti e profili di contemporanei”, Firenze 1868
[3] C. De Cesare, op. cit.
[4] M. D’Ayala, Vita degli italiani benemeriti della libertà e della Patria, Torino 1883
[5] C. De Cesare, op. cit.; A. Colombo, Emigrati napoletani a Torino, in “Rassegna storica del Risorgimento” (Congresso Sociale di Napoli), 1922
[6] R. Bonghi, Storia della finanza italiana dal 1864 al 1868, Firenze 1868
[7] L. Bulferetti, Sul programma sociale della borghesia del Risorgimento. A. Scialoja, Torino 1949
[8] C. De Cesare, op. cit.

mercoledì 13 novembre 2013

L’ANGOLO della RECENSIONE

PROCIDA 1799 – La rinascita degli eroi

             La “Repubblica Napoletana” del 1799 ebbe anche qui, in terra flegrea, a Procida in particolare, i suoi sostenitori e di conseguenza i suoi martiri, i primi in ordine cronologico, essendo state le nostre isole i primi lembi della, purtroppo effimera, repubblica ad essere rioccupati dai sostenitori dei Borbone, già scappati in Sicilia, e soprattutto dagli inglesi loro alleati e all’epoca detentori di quella che per secoli fu la più potente flotta da guerra del mondo.   Nel breve periodo repubblicano di Procida (nell’isola solo sessantaquattro giorni) è ambientato il racconto “Procida 1799 – La rinascita degli eroi” di Antonella Orefice (Arte Tipografica Editrice, Napoli, 2011). L’autrice è in realtà una storica, soprattutto del periodo della Repubblica del 1799 e penso la maggiore esperta di Eleonora de Fonseca Pimentel,  tra i più famosi martiri della reazione borbonica e sanfedista. Spesso però è coi mezzi del racconto o del romanzo che si raggiungono i migliori risultati descrittivi di un’epoca. Marx riteneva che Balzac avesse descritto l’ascesa della classe borghese in Francia, con la sua “Comédie humaine”, meglio di tanti saggi e Moravia annotò qualcosa di simile a proposito del romanzo di Conrad “Con gli occhi dell’occidente” in rapporto con gli ultimi decenni del regime zarista in Russia. Felice pertanto la scelta, da parte dell’autrice, di ricorrere alla forma del romanzo storico, ambientato in un’isola che conosce bene e in un periodo storico che conosce come pochi. È la storia dell’amore tra il notaio napoletano Bernardo Alberini (personaggio storico), commissario repubblicano a Procida, e una misteriosa Aurora. Ma attraverso la narrazione della loro breve storia rivivono personaggi storici procidani come Vincenzo Assante, medico, Giacinto Calise, semplice marinaio e soprattutto di Antonio Scialoja, colto sacerdote (quanti religiosi aderirono con convinzione alla Repubblica!), finiti poi impiccati sulla piazza di Santa Maria delle Grazie ove il patibolo era stato eretto sullo stesso posto ove i rivoluzionari avevano piantato l’ “albero della libertà”, come si usava in tutti i posti toccati dalla Rivoluzione Francese. Furono crudelmente giustiziati insieme a tanti altri il cui nome è scolpito su di una lapide nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, meritoriamente eretta, in occasione del bicentenario della gloriosa repubblica, dal Comune di Procida nel 1999. La storia della Repubblica è stata ben descritta già dal grande Vincenzo Cuoco, uno dei protagonisti di queste vicende, con grande acume e senza acritici elogi. Per quei lettori che incolpevolmente, causa il decadimento degli studi e la distrazione odierna dei media, non conoscano del tutto la storia o le cui reminiscenze scolastiche siano un po’ arrugginite, tento di dare qui di seguito una brevissima sintesi. Le truppe della Francia rivoluzionaria erano giunte a Roma nel 1798. I Borbone di Napoli avevano stretto alleanza con l’Austria degli Asburgo (alla cui famiglia apparteneva la regina Carolina). Su richiesta di Ferdinando IV a Napoli viene il generale austriaco Mack che fu posto al comando dell’esercito borbonico. Le truppe del Reame invasero i territori romani con la non troppo recondita speranza ferdinandea di ampliare i confini del regno. Mack e i Borbone subirono però una pesante sconfitta. Il “re lazzarone” (e fellone) non trovò di meglio allora che scappare in Sicilia sotto la protezione della flotta inglese e portando via le casse dello stato (come fossero sue proprie) non prima di aver ordinato all’insignificante vicario che aveva lasciato a Napoli di distruggere la flotta per evitare che cadesse in mano ai francesi. A Napoli esisteva una corposa intellighenzia illuminista (l’illuminismo napoletano dei vari Genovesi, Filangieri etc. fu secondo, insieme a quello milanese dei Verri e dei Beccaria, solo a quello francese). Questi circoli culturali, fin dai primi anni ’90 del ‘700, influenzati dalla Rivoluzione francese, evolvevano su posizioni più decisamente rivoluzionarie anche a causa dell’involuzione in senso radicalmente reazionario della corte napoletana. L’avvento dei Borbone, infatti, in un primo momento significò la ritrovata indipendenza del reame dopo secoli di predominio straniero  (semplifichiamo per motivi di sintesi), ma, soprattutto, con il primo, Carlo (impropriamente ricordato come III) il regno si inserì sulla scia dei paesi toccati dal “dispotismo illuminato” di quello che fu detto il “’700 riformatore”. La successiva ascesa di Carlo III al trono di Spagna, inizialmente, non comportò involuzione nel governo del reame. Ferdinando (IV di Napoli e III di Sicilia e poi I delle due Sicilie), come è noto, non aveva avuto un’educazione da re. Il primogenito maschio di re Carlo (vi erano tra i figli di questo anche delle donne, morte in tenerissima età, perché la mortalità infantile era diffusa anche tra le famiglie regali, ma tra i Borbone vigeva la “legge salica” che escludeva le donne dal trono) Felipe, era demente e – pertanto – escluso dalla successione, Carlo Antonio, il secondo in linea di successione, divenne  erede al trono di Spagna  e, per i motivi casuali di cui sopra, Ferdinando fu catapultato sul trono. La madre, Maria Amalia di Sassonia, voleva far di lui un cardinale per cui fu destinato a una educazione religiosa e alle cure del reazionario principe di Sannicandro. Essendo però “re nasone” nella minore età, il regno era in realtà governato da quella che, sinteticamente, definiamo “reggenza” del Tanucci, altro grande illuminista e uomo di fiducia del riformatore Carlo III con cui era in stretto contatto. Anche il matrimonio con Maria Carolina d’Asburgo, appartenente ad una famiglia di sovrani illuminati (era figlia della grande Maria Teresa d’Austria e sorella del grande sovrano riformatore Giuseppe II) fu inizialmente non priva di vantaggi per il regno. Le cose cambiarono quando scoppiò la Rivoluzione Francese e, soprattutto, quando fu ghigliottinata Maria Antonietta, sorella della sovrana napoletana. La corte cambiò qui la sua politica in senso decisamente reazionario e represse e censurò con ogni mezzo tutte le nuove idee che già felicemente si stavano sviluppando nelle nostre terre. Le classi colte finirono dunque con lo staccarsi decisamente dalla dinastia e col guardare con sempre maggior speranza alla Francia repubblicana le cui truppe erano giunte fino a Roma.

Terminata questa (apparente) digressione, torniamo a dove eravamo rimasti e cioè a Ferdinando che, sconfitto in territorio romano dai francesi, scappa in Sicilia con la protezione degli inglesi, con la cassa e dopo aver distrutto la flotta. I napoletani illuminati (quasi tutta la classe colta), simbolicamente, prendono Castel S. Elmo prima ancora dell’arrivo dei francesi del generale Championnet. Viene quindi a Napoli, il 23 gennaio 1793, proclamata la “Repubblica napoletana” con un governo provvisorio di venti membri, appartenenti alla migliore intellettualità meridionale, e tra cui spicca tra gli altri il grande giurista Mario Pagano, autore del progetto di una avanzatissima Costituzione presentato ad aprile. La repubblica riesce, nei pochi mesi di governo, ad approvare l’abolizione dei fedecommessi e del maggiorascato e poi, solo nell’ultimo mese di vita e quindi, incolpevolmente, senza effetti pratici, l’eversione della feudalità. Perché  la Repubblica Napoletana non incontrò i favori del popolo e perché visse un tempo così effimero? Il regno, per cause secolari, era arretratissimo. A differenza di altri paesi europei, come per esempio la Francia, le condizioni economiche non avevano consentito la nascita di una corposa classe borghese (quelli che oggi chiameremmo ceti medi). In misura maggiore che altrove, dunque, la popolazione era divisa tra uno sterminato sottoproletariato e un’esigua minoranza di privilegiati. La stragrande maggioranza della popolazione era dunque, non certo per sua colpa, analfabeta e ignorante, in preda alle superstizioni; contadini vessati dai baroni nelle campagne, plebe abituata da secoli a vivere di espedienti nelle città e soprattutto a Napoli, terza città d’Europa per popolazione (e solo per questo). Dunque le masse erano facilmente manovrabili dalla Chiesa, soprattutto nelle campagne, o, come nelle città e a Napoli in particolare, pronta a vendersi solo a chi promettesse o fornisse effettivamente piccolissimi vantaggi personali. La ristrettissima classe che prese il potere nel 1799 proveniva in parte dalla classe dei privilegiati (quasi gli unici, coi preti, che potevano avere accesso agli studi) e non poteva essere  compresa dal popolo. Le casse dello stato erano vuote e il tempo a disposizione fu pochissimo perché producesse effetti tangibili per la popolazione. La Repubblica quindi, fatta da nobili idealisti, non poté conquistare le masse e, con la partita dei francesi, tornati nel nord Italia onde difendere la Francia stessa dall’ennesima offensiva della coalizione delle potenze reazionarie, rimase pressoché inerme di fronte alle masse superstiziose organizzate dal famigerato cardinale Ruffo ne “L’esercito di santa fede” onde il termine di “sanfedisti” e di fronte alla potente flotta britannica (a poco potendo l’ammiraglio repubblicano Caracciolo essendo stata la flotta fatta affondare dal Borbone). Fu Vincenzo Cuoco, che pure fu tra i protagonisti della esperienza repubblicana, a vedere, già in una lucida prospettiva storica, i limiti (non superabili in quella condizione storica data) di quella che fu una “rivoluzione passiva”, termine poi esteso all’intero processo risorgimentale. La storia è stata vista nella sua complessità dunque da subito, ben prima delle semplicistiche, astoriche e ingenue a rovescio, ricostruzioni aprofessionali degli imbrattacarte neoborbonici. Ma Napoli, come felicemente ebbe a notare il nostro grande Benedetto Croce, fu una “Napoli nobilissima”, perché i suoi martiri quali Eleonora Pimentel Fonseca, Pagano, Caracciolo e tutti gli altri, un’intera classe di intellettuali di primissimo ordine, combatterono e morirono, a seguito del tradimento di un re fellone (solo il primo di tanti altri) per abolire privilegi che erano anche della propria classe, puri e disinteressati come in nessun angolo d’Europa, Francia in primis, dove (giustamente) una classe in ascesa, la borghesia, contrapponeva i propri interessi a quelli vetusti della nobiltà, del clero e dei residui feudali. Ruffo aveva promesso a quelli che saranno considerati i primi martiri del nostro Risorgimento salva la vita, come è noto, ma la coppia regale non mantenne la sua promessa (solo il primo dei numerosi tradimenti di un sovrano cialtrone).

Quello che accadde in tutto lo stato meridionale e a Napoli, che spero di non aver mal sintetizzato sopra, si verificò “in nuce” e in anteprima a Procida, microcosmo di tutto quest’angolo di mondo. Fa parte della nostra storia flegrea che il bel libro di Antonella Orefice, che vi invitiamo, noi di “Vita Flegrea”, a leggere. Prima di terminare si vuole qui ricordare che uno dei martiri procidani del 1799 fu Antonio Scialoja, zio dell’omonimo Antonio Scialoja che fu deputato del collegio di Pozzuoli del governo costituzionale del 1848 e poi primo deputato flegreo nel parlamento dell’Italia unita nel 1861, già esule a Torino e poi ministro nel 1866 allorché introdusse in Italia il “corso forzoso” della Lira. Ma di questo parleremo più ampiamente in un altro prossimo articolo.


Procida 1799 – La rinascita degli eroi” di Antonella Orefice (Arte Tipografica Editrice, Napoli, 2011).


giovedì 5 settembre 2013

martedì 3 settembre 2013

LETTERA APERTA AL Sig. SINDACO di POZZUOLI n. 2

Egregio Sig. Sindaco del Comune di Pozzuoli
in data 11 agosto u.s. Le ho già inviato una lettera aperta circa la grave situazione verificatasi in via Carlo Maria Rosini e strade adiacenti in merito alla solo apparente operazione di routine del rifacimento della segnaletica orizzontale. GlieLa ho inviata, in data 11 agosto u. s. sia al suo indirizzo email: sindaco.pozzuoli@comune.pozzuoli.na.it  sia - in forma pubblica - attraverso la Rete, tramite il  blog "luciferoflegreo" http://luvipice51.blogspot.com e indirettamente tramite alcuni blog locali che la hanno ritenuta degna di pubblicazione, tra i quali  "Pozzuoli 21" e "Punto Il magazine carta e Web". Questa stessa missiva faceva seguito ad altra in forma cartacea, regolarmente depositata e protocollata, presso il competente ufficio comunale, a firma di circa duecento cittadini della suddetta zona che, con la stessa, Le hanno chiesto un incontro urgente sull'argomento. Nessuna risposta risulta pervenuta né da parte Sua né della Sua amministrazione. Quasi sicuramente Lei non ha ancora letto né la mia nè quella dei cittadini della zona. Poco male, vi sono stati prima i noti eventi tragici, necessariamente prioritari, e poi le vacanze. Ma ora si chiede una risposta ed un incontro con cortese urgenza. La missiva precedente glieLa trascrivo in calce alla presente. Ma prima devo informarLa di alcune cose. Mi sono recato insieme alla dott.ssa Lucia Fattore, rappresentante del gruppo "Salviamo le Palazzine", cioè di una zona finitima attanagliata da medesimi problemi, presso gli uffici competenti del Comune ove i gentili funzionari preposti hanno assicurato: 1) che nessuna nuova normativa - circa la sosta in via Rosini - è stata posta in essere da codesta Amministrazione; 2) che non è vigente alcun piano stradale presso il Comune di Pozzuoli circa la percentualizzazione degli stalli di sosta (strisce bianche, azzurre, gialle) ma vi è solo una direttiva di massima del Commissario p.t. che indicava in 40% gli stalli a pagamento, 40% quelli a sosta libera e 20% quelli riservati. Ciò è, grosso modo, quel che già prevede il vigente Codice della Strada. Allo stato dunque l'attuale situazione della sosta in via Rosini , oltre che fortemente "disagevole" (per usare un eufemismo) per i residenti e gli esercenti di pubblici servizi, è anche ILLEGITTIMA!
Trascrivo la precedente lettera:
Egr. Sig. Sindaco del Comune di Pozzuoli

Io non so, caro primo cittadino della mia città di Pozzuoli se la S.V. mai si degnerà di leggere la presente; so però che il Sindaco di una città, in un paese civile e democratico, dovrebbe dare ascolto ai problemi posti dai suoi amministrati, cioè a coloro che lo hanno eletto, che pagano le tasse (e quanto alte e con quanto sacrificio!) e con esse anche il suo stipendio. Di recente i cittadini residenti e i pubblici esercenti di via Carlo Maria Rosini e vie adiacenti (tra i quali ho l'onore di annoverarmi) Le hanno indirizzato una lettera, regolarmente protocollata presso il competente ufficio, nella quale, esternando le grandi difficoltà che la predetta zona sta vivendo e - soprattutto - vieppiù vivrà a settembre col riprendere delle attività scolastiche e il ritorno dei fortunati che ancora possono permettersi le vacanze, Le chiedevano un incontro urgente sul tema. A questa missiva Lei non ha risposto e, a specifica domanda di qualche cittadino della zona che La ha incontrato per strada, avrebbe detto di non voler rispondere e di non aver nessuna intenzione di trattare l'argomento e tanto meno di cambiare una virgola di suoi provvedimenti in materia. Se tali affermazioni fossero vere, come sembrerebbe da più di una testimonianza, già tale atteggiamento di per sé sarebbe oltremodo grave, antidemocratico e irrispettoso nei confronti dei suoi amministrati.
Ma veniamo ai fatti.
Nella seconda metà di luglio, in via C. M. Rosini, si procedeva al rifacimento della segnaletica orizzontale (peraltro in parziale ma evidente contrasto con quella verticale rimasta invariata). A seguito di quella che appariva una normale operazione di routine da parte di un'amministrazione comunale ne risultava una situazione paradossale. Gli "stalli" ove da parte di tutti gli automobilisti (delimitati da strisce bianche) è possibile parcheggiare sono solo sette, oltre uno per i portatori di handicap. Ovvia la prima riflessione: dove parcheggeranno i residenti che sono molto ma molto più di sette? Dove potranno sostare i clienti dei negozi e ristoranti che sono molto più di sette (altrimenti avrebbero già chiuso da tempo!)? Ma a questo si aggiunge, ad aggravare la situazione, l'interpretazione "restrittiva" data dai VV.UU., presenti fino agli inizi di agosto tutti i giorni, in base alla quale, essendo stata delimitata segnaleticamente la carreggiata sul lato destro (in direzione di Napoli), su questo lato sarebbe vietata la sosta! E ciò pur essendo la strada larga e a senso unico!
Alla luce di quanto sopra si chiede alla S.V.:

  1. In base all'eventuale piano stradale e all'art. 7 co 8 del vigente Codice della Strada, dove viene riservata una "adeguata area destinata a parcheggio su parte della stessa area o su altra parte nelle immediate vicinanze senza custodia o senza dispositivi di controllo di durata della sosta" come alla lettera prevede la predetta normativa? Non certo nell'area finitima detta delle "palazzine" dove cittadini e negozianti sono attanagliati da problemi simili e hanno - a tal uopo - istituito un comitato (anch'esso inascoltato) denominato "Salviamo le palazzine". E allora dove?
  2. Passando dalla domanda in punto di diritto ad una in punto di fatto (ma in realtà anche questa di diritto), i cittadini residenti di questa strada, impossibilitati in via assoluta a parcheggiare, sono considerati dalla Sua amministrazione cittadini di serie B? Un ente pubblico non deve garantire trattamento uguale a tutti  i cittadini come da Costituzione della nostra Repubblica? I residenti devono sbarazzarsi delle auto e del loro diritto a possederne? Gli esercenti della zona, già duramente colpiti dalla crisi economica, devono chiudere e, in tal caso, chi provvederà alle loro famiglie e a quelle dei loro dipendenti? 
  3. Cosa ha programmato per settembre quando riapriranno le due scuole elementari, la scuola media inferiore e l'asilo presenti nella zona e quando rientreranno i cittadini attualmente in vacanza?
  4. Se, alla fine di tutto ciò, Lei, Egregio Sig. Sindaco, rispondesse che dei sacrifici sono necessari per il superiore interesse della viabilità, ci troveremmo in presenza di quella  abusata ma efficace frase: "l'operazione è riuscita ... il paziente è morto"!
Di altre anomalie in materia che vi sono su detta zona (come, per citarne una sola, l'occupazione della carreggiata, sì, della carreggiata e non del marciapiede, con pesanti vasi contenenti piante in via Carmine, mai sanzionata dai VV.UU. evidentemente in tutt'altre faccende affaccendati) ci si riserva di parlare in successive missive e dopo consultazione con gli altri suoi (?) amministrati della zona.
Con la deferenza comunque dovuta al Primo Cittadino Le porgo i più distinti saluti.

domenica 11 agosto 2013

LETTERA APERTA AL SINDACO DI POZZUOLI

Egr. Sig. Sindaco del Comune di Pozzuoli

Io non so, caro primo cittadino della mia città di Pozzuoli se la S.V. mai si degnerà di leggere la presente; so però che il Sindaco di una città, in un paese civile e democratico, dovrebbe dare ascolto ai problemi posti dai suoi amministrati, cioè a coloro che lo hanno eletto, che pagano le tasse (e quanto alte e con quanto sacrificio!) e con esse anche il suo stipendio. Di recente i cittadini residenti e i pubblici esercenti di via Carlo Maria Rosini e vie adiacenti (tra i quali ho l'onore di annoverarmi) Le hanno indirizzato una lettera, regolarmente protocollata presso il competente ufficio, nella quale, esternando le grandi difficoltà che la predetta zona sta vivendo e - soprattutto - vieppiù vivrà a settembre col riprendere delle attività scolastiche e il ritorno dei fortunati che ancora possono permettersi le vacanze, Le chiedevano un incontro urgente sul tema. A questa missiva Lei non ha risposto e, a specifica domanda di qualche cittadino della zona che La ha incontrato per strada, avrebbe detto di non voler rispondere e di non aver nessuna intenzione di trattare l'argomento e tanto meno di cambiare una virgola di suoi provvedimenti in materia. Se tali affermazioni fossero vere, come sembrerebbe da più di una testimonianza, già tale atteggiamento di per sé sarebbe oltremodo grave, antidemocratico e irrispettoso nei confronti dei suoi amministrati.
Ma veniamo ai fatti.
Nella seconda metà di luglio, in via C. M. Rosini, si procedeva al rifacimento della segnaletica orizzontale (peraltro in parziale ma evidente contrasto con quella verticale rimasta invariata). A seguito di quella che appariva una normale operazione di routine da parte di un'amministrazione comunale ne risultava una situazione paradossale. Gli "stalli" ove da parte di tutti gli automobilisti (delimitati da strisce bianche) è possibile parcheggiare sono solo sette, oltre uno per i portatori di handicap. Ovvia la prima riflessione: dove parcheggeranno i residenti che sono molto ma molto più di sette? Dove potranno sostare i clienti dei negozi e ristoranti che sono molto più di sette (altrimenti avrebbero già chiuso da tempo!)? Ma a questo si aggiunge, ad aggravare la situazione, l'interpretazione "restrittiva" data dai VV.UU., presenti fino agli inizi di agosto tutti i giorni, in base alla quale, essendo stata delimitata segnaleticamente la carreggiata sul lato destro (in direzione di Napoli), su questo lato sarebbe vietata la sosta! E ciò pur essendo la strada larga e a senso unico!
Alla luce di quanto sopra si chiede alla S.V.:

  1. In base all'eventuale piano stradale e all'art. 7 co 8 del vigente Codice della Strada, dove viene riservata una "adeguata area destinata a parcheggio su parte della stessa area o su altra parte nelle immediate vicinanze senza custodia o senza dispositivi di controllo di durata della sosta" come alla lettera prevede la predetta normativa? Non certo nell'area finitima detta delle "palazzine" dove cittadini e negozianti sono attanagliati da problemi simili e hanno - a tal uopo - istituito un comitato (anch'esso inascoltato) denominato "Salviamo le palazzine". E allora dove?
  2. Passando dalla domanda in punto di diritto ad una in punto di fatto (ma in realtà anche questa di diritto), i cittadini residenti di questa strada, impossibilitati in via assoluta a parcheggiare, sono considerati dalla Sua amministrazione cittadini di serie B? Un ente pubblico non deve garantire trattamento uguale a tutti  i cittadini come da Costituzione della nostra Repubblica? I residenti devono sbarazzarsi delle auto e del loro diritto a possederne? Gli esercenti della zona, già duramente colpiti dalla crisi economica, devono chiudere e, in tal caso, chi provvederà alle loro famiglie e a quelle dei loro dipendenti? 
  3. Cosa ha programmato per settembre quando riapriranno le due scuole elementari, la scuola media inferiore e l'asilo presenti nella zona e quando rientreranno i cittadini attualmente in vacanza?
  4. Se, alla fine di tutto ciò, Lei, Egregio Sig. Sindaco, rispondesse che dei sacrifici sono necessari per il superiore interesse della viabilità, ci troveremmo in presenza di quella  abusata ma efficace frase: "l'operazione è riuscita ... il paziente è morto"!
Di altre anomalie in materia che vi sono su detta zona (come, per citarne una sola, l'occupazione della carreggiata, sì, della carreggiata e non del marciapiede, con pesanti vasi contenenti piante in via Carmine, mai sanzionata dai VV.UU. evidentemente in tutt'altre faccende affaccendati) ci si riserva di parlare in successive missive e dopo consultazione con gli altri suoi (?) amministrati della zona.
Con la deferenza comunque dovuta al Primo Cittadino Le porgo i più distinti saluti.