luciferoflegreo: L’ANGOLO della CULTURASTORIA FLEGREA (e non solo)
...: L’ANGOLO della CULTURA STORIA FLEGREA (e non solo) È quasi un luogo comune, nelle città flegree, che la nostra terra non abbia part...
martedì 19 novembre 2013
L’ANGOLO della CULTURA
STORIA FLEGREA (e non solo)
È quasi un luogo comune, nelle città
flegree, che la nostra terra non abbia partorito personaggi politici di rilievo
nazionale. Qualcuno forse ricorda che nacque a Pozzuoli Guglielmo Giannini,
fondatore prima del periodico intitolato
“L’Uomo Qualunque”e poi del partito politico famoso e famigerato del “Fronte
dell’Uomo Qualunque” (F.U.Q.), partito che ebbe un notevole successo
nell’Italia del primissimo dopoguerra (riuscì a far eleggere anche diversi
deputati all’Assemblea Costituente). Ma - a parte il fatto che non è da menar
gran vanto dell’aver dato i natali al padre di un movimento che, per la sua
tendenza a semplificare problemi complessi, diede origine al termine usato
dispregiativamente in politica di “qualunquista”
– Giannini nacque a Pozzuoli ma crebbe a Napoli. La memoria storica della
nostra gente, però, non va quasi mai più indietro di ciò che hanno visto e ci
hanno raccontato i nostri nonni, raggiunge cioè, al massimo, la grande Guerra
del 1915-18. Abbiamo invece avuto da queste parti uno dei protagonisti della
vita politica nazionale degli anni precedenti l’Unità e, soprattutto, dei primi
decenni di vita del nostro stato. Si tratta di Antonio Scialoja, procidano
(nacque soltanto, per motivi accidentali, a San Giovanni a Teduccio), deputato
eletto nel collegio uninominale di Pozzuoli alle elezioni del 1848, durante la
breve esperienza costituzionale del Regno delle due Sicilie del 1848 – 49, ma
soprattutto deputato per più legislature, sempre del collegio di Pozzuoli,
ministro dell’importantissimo dicastero delle finanze in un anno di cruciali
decisioni, anche in economia, quale fu il 1866 e fra i principali attori della
nostra vita politica dell’epoca.
Conobbi l’esistenza di questo
personaggio, illustre ma a me, all’epoca, sconosciuto, quando mi fu proposto
come argomento della tesi di laurea dal titolare della cattedra di Storia
Contemporanea della facoltà di Scienze Politiche, il compianto prof. Mendella.
Dovendo laurearmi piuttosto celermente, la tesi, nelle intenzioni mie e del
prof. Mendella, doveva essere solo un primo approccio a studi più approfonditi
sullo stesso Scialoja. I casi della vita mi allontanarono dal campo delle
ricerche storiche portandomi verso un mestiere in un campo del tutto diverso.
Giunto all’età della pensione ho pensato per un po’ di riprendere le mie
giovanili ricerche. Ho dovuto però arrendermi perché, non avvezzo agli studi
scientifici, mi sono imbattuto su di una
mole immensa di libri di Scialoja
(fu infatti il maggiore economista italiano degli anni 1850-70) e di libri su Scialoja (presso l’Università di
Siena vi è addirittura il fornitissimo “Archivio Scialoja”). Fuori della nostra
provincia dunque Scialoja è un personaggio ben noto agli esperti del ramo, per
cui ho tratto la conclusione che, anche “post mortem”, “nemo propheta in
patria”! Ho ripescato però una mia “comunicazione” inserita nel volume “La
Storia di Pozzuoli dalle origini all’età contemporanea” a cura del prof.
Antonio Alosco, profondo conoscitore della storia contemporanea della nostra
città e tra i pochi che trattano la stessa su basi scientifiche. Si tratta
degli “Atti del Convegno 3-4 maggio 1991” tenuti presso la “Biblioteca Civica
Puteolana” e organizzata dal Comune di Pozzuoli – Assessorato alla Cultura e
che – con pochissimi e marginali ritocchi – mi permetto di riproporvi.
LUCIO
D’ISANTO
Antonio Scialoja,
I° deputato del Collegio di Pozzuoli
Antonio Scialoja nacque il 31
luglio 1817 nell’allora piccolo comune di San Giovanni a Teduccio, presso
Napoli, da Aniello, che ivi era Ispettore di Pubblica Sicurezza, e da Raffaella
Madia. Il nome di Antonio gli fu dato in memoria di uno zio che era stato tra i
martiri della Repubblica Partenopea del 1799; la sua era infatti una famiglia
di tradizioni liberali. Originari della Spagna, gli Scialoja vennero in Italia
nella
prima metà del XVI secolo, all’epoca dei primi viceré. Imparentatisi con la
famiglia Scotti di Procida e, avendo ivi ereditato alcuni beni, vi si trasferirono.
La famiglia Scialoja fu resa illustre dal giureconsulto Angelo, principe del
foro napoletano, e da Antonio Maria, conosciuto per aver pubblicato, con un
cugino, un’opera “corografico - storica" su Miseno e su Cuma nonché
descrizioni sulla villa di Cicerone e sui Campi Flegrei. Di modeste possibilità
economiche, perché i beni della sua famiglia erano stati confiscati fin dalla
prima restaurazione borbonica del 1799, trascorse la sua giovinezza a Procida,
dove venne educato da uno zio che lo indirizzò agli studi umanistici. Si formò
soprattutto con la lettura degli illuministi napoletani del ‘700. L’autore che
maggiormente lo influenzò fu il Genovesi, le cui opere, come egli in seguito
avrà a dire, gli inculcarono l’amore per "l’economia sociale" (forse
con un po’ di esagerazione, lo storico del socialismo L. Bulferetti lo definì
“uno dei primi liberalsocialisti”, sia pure non nel senso della molto
successiva corrente di pensiero, dal nome analogo, del filosofo Guido Calogero
e dei fratelli Rosselli)[1]. Frutto
dei suoi studi economico-filosofici fu la sua opera giovanile, pubblicata nel
1840: “Principi di economia sociale esposti in ordine ideologico". L’opera
meravigliò il mondo scientifico, soprattutto tenendo conto che era stata scritta
da un giovane di soli ventitre anni, e taluno sospettò che dietro il nome
dell’autore si celasse qualche illustre scrittore. Quest’opera gli valse però
anche la diffidenza del governo borbonico che credeva, giustamente dal suo
punto di vista, che, come gli altri economisti, Scialoja si avvalesse delle
forme scientifiche e del tecnicismo economico per diffondere i principi
liberisti e liberali. Nel ’44, inviato per conto di talune case commerciali
napoletane in Francia ed in Inghilterra,
ebbe modo di conoscere e farsi conoscere
negli ambienti scientifici e liberali di oltralpe. Nel 1845, essendogli stato preferito Placido
De Luca al concorso per la Cattedra di Economia
Politica dell’Università di Napoli, emigrò in
Piemonte dove Cesare Alfieri, supremo magistrato della Riforma degli Studi, lo chiamò a ricoprire la stessa
cattedra nella Università di Torino[2]. Si dice che il Borbone, parlandone con il
Santangelo, Ministro dell’Interno, abbia
asserito che di avere tra i piedi un "pennarulo" (come “re bomba”
definiva gli intellettuali) di meno non c’era che da rallegrarsi[3]. Lo
Scialoja tornò a Napoli dopo i moti del ’48.
Concessa infatti la Costituzione dal riluttante Ferdinando II, dopo due
governi di transizione Serracapriola, si
formò il Gabinetto Troja, ben visto a Torino perché interpretato come un
decisivo evolversi del Regno delle due Sicilie
verso il liberalismo. Di questo governo Scialoja divenne Ministro
dell’Agricoltura e del Commercio, e come tutti i componenti di quel governo partecipò alle elezioni che si tennero
successivamente e risultò eletto nel Collegio
di Pozzuoli. Scialoja fu cosi tra coloro
che ebbero il difficile compito di fare da tramite tra un Parlamento piuttosto
avanzato ed il Sovrano che, con le Guardie
Militari e Sanfediste, non aspettava altro che il momento opportuno per sbarazzarsi della Costituzione.
Abrogata di fatto (formalmente solo
“sospesa”) nel ’49 la Costituzione, a seguito di un ennesimo tradimento della
dinastia borbonica, Scialoja venne arrestato il
26 Settembre dello stesso anno e tradotto nel carcere di Santa Maria
Apparente in Napoli. In un processo,
giustamente ritenuto scandaloso in Europa, furono sottoposti a giudizio con
l’accusa di lesa maestà, otto ex - ministri e 44 ex-deputati. Tra gli imputati
Silvio Spaventa venne condannato a morte e
Scialoja a nove anni di reclusione perchè accusato, tra l’altro, di aver
sollecitato il Dupont a persuadere il Re a sostituire, nella formula di
giuramento della Costituzione da parte di Ferdinando II (spergiuro come il suo
avo), alla parola "svolgere" quella di "modificare" lo Statuto
(in senso liberale)[4]. Il sovrano, sotto la pressione dell’opinione
pubblica internazionale, commutò la pena
di morte per Silvio Spaventa in ergastolo, e quella di nove anni di reclusione per Scialoja
nell’esilio perpetuo dal Regno, per cui questi fu liberato il 25 ottobre 1852
dopo tre anni di carcere. Scelta, per ovvi motivi, Torino come sede
dell’esilio, trovò ivi la cattedra di Economia Politica ormai occupata. Fu
Cavour, allora Ministro dell`Agricoltura del Piemonte e che lo stimava molto,
che gli venne in aiuto, nominandolo il 3 luglio 1853 “consultore legale" nell’Ufficio
“del Catasto di Piemonte". In questo periodo, oltre a collaborate con
Cavour nella Riforma Agraria, fu autore di vari testi di diritto e di economia
di grande importanza. Appoggiò strenuamente, come saggista e come collaboratore
de "ll Risorgimento” e de "Il Secolo XIX", le idee liberiste di
Cavour, e, divenuto questi Presidente del Consiglio, ebbe anche incarichi
diplomatici ufficiosi di notevole rilievo[5]. Soprattutto
scrisse un’opera fondamentale per comprendere come il Piemonte, in pochi anni, fosse
divenuto uno dei paesi con un’economia tra le più avanzate d’Europa mentre il
Regno delle due Sicilie, che Ferdinando II voleva estraniare dal mondo moderno
e “chiuso tra l’acqua santa (lo Stato Pontificio) e l’acqua salata” e dunque
restava tra i più arretrati: “Note e
confronti dei bilanci del Regno di Napoli e degli Stati Sardi". In questo
opuscolo previde con esattezza ciò che sarebbe avvenuto il giorno
dell’unificazione. Sostenute soltanto da un ferreo regime doganale che le
teneva al riparo da qualsiasi concorrenza, le industrie meridionali sarebbero
state spazzate via da quelle piemontesi che, grazie al regime competitivo
instaurato da Cavour, ed al libero scambio, fornivano prodotti migliori e più a
buon mercato. Poi, sempre in quest’opera, Scialoja metteva in risalto come il
bilancio delle due Sicilie fosse sì in attivo ma solo perché i governi
borbonici tendevano a tesaurizzare anziché investire mentre il Piemonte
cavouriano chiudeva in deficit perché investiva in ferrovie e ammodernamento
dell’agricoltura, cioè per arricchire il paese.
Scialoja fu poi Ministro delle Finanze nel periodo della Dittatura di Garibaldi
e, tornato questi a Caprera, fu confermato in tale incarico nel Consiglio di
luogotenenza presieduto da Luigi Carlo Farini. Proclamata l’Unita d’Italia fu
eletto deputato (le elezioni si tenevano allora con il sistema uninominale) nel
Collegio di Pozzuoli e fu pertanto il primo rappresentante della nostra città
nel parlamento dell’ Italia Unita. Fu, successivamente, nominato da Cavour, e,
dopo la morte di questi confermato dal Ricasoli, Segretario Generale del
Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio e con tale incarico concluse,
come capo della delegazione del governo italiano, il primo importante accordo commerciale
in campo internazionale dell’ltalia Unita, quell’ accordo con la Francia che
diede ai vini meridionali (soprattutto pugliesi) un’importantissimo sbocco commerciale
in Francia e che verrà abbandonato soltanto quando, dopo l’occupazione francese
della Tunisia, scoppierà tra Italia e Francia la cosiddetta “guerra delle
tariffe” negli anni ’80 dell’800. Collaboratore poi di Quintino Sella, l’uomo
della "economia fino all’osso", fu nominato da questi Presidente di
Sezione della Corte dei Conti. Ma fu quando, in una situazione economica
disastrosa, bisognava far fronte alle spese della III guerra d’Indipendenza, nel
1866, che Scialoja ebbe il suo incarico più importante. Formatosi allora il
Ministero La Marmora, la poltrona scottante del Ministero delle Finanze fu
rifiutata da Sella e da Minghetti e Scialoja che era, come si direbbe oggi, "un
tecnico" (era infatti con il Ferrara considerato il maggior economista
dell’epoca) fu catapultato al vertice del Ministero delle Finanze. A lui toccò,
quindi, l’impopolarissima, per le convinzioni dell’epoca tutte “laisser faire,
laisser passer”, decisione della introduzione del corso forzoso della lira,
decisione coraggiosa che permise all’Italia di affrontare e superare le spese
dell’Unità (guerra di Crimea e guerre di indipendenza oltre all’accollarsi dei
debiti di tutti gli stati preunitari) e quelle aggiuntive della nuova guerra con
l’Austria[6]. Vigeva
allora, sia nel mercato interno sia soprattutto per i pagamenti internazionali,
il “Gold Standard”, cioè tutta la massa monetaria cartacea doveva essere coperta
dall’oro depositato nelle banche autorizzate ad emettere moneta (all’epoca in
Italia ve ne era più di una). L’introduzione del “corso forzoso” (o, come si
diceva allora, “forzato”) della Lira, decisa appunto da Scialoja, svincolava la
moneta cartacea (che pertanto diveniva “banconota”) dalla parità aurea e
permetteva così di stampare moneta (è la soluzione cui oggi ricorrono molti
stati, per es. gli USA di Obama e il Giappone, per vivificare l’economia nei
periodi di crisi). L’Italia riuscì così a onorare i propri impegni verso i
fornitori e creditori interni e sul mercato internazionale mentre le
conseguenze inflattive, che sempre comporta l’incremento del circolante medio,
furono attenuate dall’esodo di valuta per l’acquisto di oro verso l’Australia e
la California ove erano stati scoperti ricchi giacimenti del prezioso metallo. Successivamente
Scialoja ebbe lunghe polemiche con il Ferrara, l’altro grande economista
dell’epoca. Egli era infatti capofila della scuola liberista, Ferrara di quella
protezionista che, poiché il protezionismo vigeva soprattutto negli imperi
centrali, venne definita sprezzantemente “Lombardo- Veneta"[7]. Successivamente,
già ormai ammalato, si recò in Egitto dove divenne, nel 1874, consigliere in
materia finanziaria del Khedivé d’Egitto, Ismail Pascià, che, impregnato di cultura
europea, tentò di riordinare in senso occidentale le finanze del suo Stato.
Aggravatosi lo stato di salute nel 1877, alla metà di Agosto, tornò a Procida dove
morì il 13 Ottobre. Più tardi, grazie alle pressioni del Comune di Procida e di
alcuni politici suoi amici (Alfieri,
Berti, Saracco, Boselli, Visconti Venosta, Luzzatti, Cambrai-Digny, Bonghi, Cosenz, Salandra ed
altri), gli fu elevato il monumento che
ancora oggi possiamo ammirare nell’isola di Procida[8].
[2] E.
Pessina, Antonio Scialoja, in “Il Pungolo”, Napoli 1897; R. Bonghi, Antonio
Scialoja, in “Ritratti e profili di contemporanei”, Firenze 1868
[3] C. De
Cesare, op. cit.
[4] M.
D’Ayala, Vita degli italiani benemeriti della libertà e della Patria, Torino
1883
[5] C. De Cesare,
op. cit.; A. Colombo, Emigrati napoletani a Torino, in “Rassegna storica del
Risorgimento” (Congresso Sociale di Napoli), 1922
[6] R.
Bonghi, Storia della finanza italiana dal 1864 al 1868, Firenze 1868
[7] L.
Bulferetti, Sul programma sociale della borghesia del Risorgimento. A.
Scialoja, Torino 1949
[8] C. De
Cesare, op. cit.
mercoledì 13 novembre 2013
L’ANGOLO della RECENSIONE
PROCIDA 1799 – La rinascita degli eroi
La “Repubblica Napoletana” del
1799 ebbe anche qui, in terra flegrea, a Procida in particolare, i suoi
sostenitori e di conseguenza i suoi martiri, i primi in ordine cronologico,
essendo state le nostre isole i primi lembi della, purtroppo effimera,
repubblica ad essere rioccupati dai sostenitori dei Borbone, già scappati in
Sicilia, e soprattutto dagli inglesi loro alleati e all’epoca detentori di
quella che per secoli fu la più potente flotta da guerra del mondo. Nel breve periodo repubblicano di Procida (nell’isola
solo sessantaquattro giorni) è ambientato il racconto “Procida 1799 – La rinascita degli eroi” di Antonella Orefice (Arte
Tipografica Editrice, Napoli, 2011). L’autrice è in realtà una storica,
soprattutto del periodo della Repubblica del 1799 e penso la maggiore esperta
di Eleonora de Fonseca Pimentel, tra i
più famosi martiri della reazione borbonica e sanfedista. Spesso però è coi
mezzi del racconto o del romanzo che si raggiungono i migliori risultati
descrittivi di un’epoca. Marx riteneva che Balzac avesse descritto l’ascesa
della classe borghese in Francia, con la sua “Comédie humaine”, meglio di tanti
saggi e Moravia annotò qualcosa di simile a proposito del romanzo di Conrad
“Con gli occhi dell’occidente” in rapporto con gli ultimi decenni del regime
zarista in Russia. Felice pertanto la scelta, da parte dell’autrice, di
ricorrere alla forma del romanzo storico, ambientato in un’isola che conosce
bene e in un periodo storico che conosce come pochi. È la storia dell’amore tra
il notaio napoletano Bernardo Alberini (personaggio storico), commissario
repubblicano a Procida, e una misteriosa Aurora. Ma attraverso la narrazione
della loro breve storia rivivono personaggi storici procidani come Vincenzo
Assante, medico, Giacinto Calise, semplice marinaio e soprattutto di Antonio
Scialoja, colto sacerdote (quanti religiosi aderirono con convinzione alla
Repubblica!), finiti poi impiccati sulla piazza di Santa Maria delle Grazie ove
il patibolo era stato eretto sullo stesso posto ove i rivoluzionari avevano
piantato l’ “albero della libertà”, come si usava in tutti i posti toccati
dalla Rivoluzione Francese. Furono crudelmente giustiziati insieme a tanti
altri il cui nome è scolpito su di una lapide nella chiesa di Santa Maria delle
Grazie, meritoriamente eretta, in occasione del bicentenario della gloriosa
repubblica, dal Comune di Procida nel 1999. La storia della Repubblica è stata
ben descritta già dal grande Vincenzo Cuoco, uno dei protagonisti di queste
vicende, con grande acume e senza acritici elogi. Per quei lettori che
incolpevolmente, causa il decadimento degli studi e la distrazione odierna dei
media, non conoscano del tutto la storia o le cui reminiscenze scolastiche
siano un po’ arrugginite, tento di dare qui di seguito una brevissima sintesi.
Le truppe della Francia rivoluzionaria erano giunte a Roma nel 1798. I Borbone
di Napoli avevano stretto alleanza con l’Austria degli Asburgo (alla cui
famiglia apparteneva la regina Carolina). Su richiesta di Ferdinando IV a
Napoli viene il generale austriaco Mack che fu posto al comando dell’esercito
borbonico. Le truppe del Reame invasero i territori romani con la non troppo
recondita speranza ferdinandea di ampliare i confini del regno. Mack e i
Borbone subirono però una pesante sconfitta. Il “re lazzarone” (e fellone) non
trovò di meglio allora che scappare in Sicilia sotto la protezione della flotta
inglese e portando via le casse dello stato (come fossero sue proprie) non
prima di aver ordinato all’insignificante vicario che aveva lasciato a Napoli
di distruggere la flotta per evitare che cadesse in mano ai francesi. A Napoli
esisteva una corposa intellighenzia illuminista (l’illuminismo napoletano dei
vari Genovesi, Filangieri etc. fu secondo, insieme a quello milanese dei Verri
e dei Beccaria, solo a quello francese). Questi circoli culturali, fin dai
primi anni ’90 del ‘700, influenzati dalla Rivoluzione francese, evolvevano su
posizioni più decisamente rivoluzionarie anche a causa dell’involuzione in
senso radicalmente reazionario della corte napoletana. L’avvento dei Borbone,
infatti, in un primo momento significò la ritrovata indipendenza del reame dopo
secoli di predominio straniero
(semplifichiamo per motivi di sintesi), ma, soprattutto, con il primo, Carlo
(impropriamente ricordato come III) il regno si inserì sulla scia dei paesi
toccati dal “dispotismo illuminato” di quello che fu detto il “’700
riformatore”. La successiva ascesa di Carlo III al trono di Spagna,
inizialmente, non comportò involuzione nel governo del reame. Ferdinando (IV di
Napoli e III di Sicilia e poi I delle due Sicilie), come è noto, non aveva
avuto un’educazione da re. Il primogenito maschio di re Carlo (vi erano tra i
figli di questo anche delle donne, morte in tenerissima età, perché la
mortalità infantile era diffusa anche tra le famiglie regali, ma tra i Borbone
vigeva la “legge salica” che escludeva le donne dal trono) Felipe, era demente
e – pertanto – escluso dalla successione, Carlo Antonio, il secondo in linea di
successione, divenne erede al trono di
Spagna e, per i motivi casuali di cui sopra,
Ferdinando fu catapultato sul trono. La madre, Maria Amalia di Sassonia, voleva
far di lui un cardinale per cui fu destinato a una educazione religiosa e alle
cure del reazionario principe di Sannicandro. Essendo però “re nasone” nella
minore età, il regno era in realtà governato da quella che, sinteticamente, definiamo
“reggenza” del Tanucci, altro grande illuminista e uomo di fiducia del
riformatore Carlo III con cui era in stretto contatto. Anche il matrimonio con
Maria Carolina d’Asburgo, appartenente ad una famiglia di sovrani illuminati
(era figlia della grande Maria Teresa d’Austria e sorella del grande sovrano
riformatore Giuseppe II) fu inizialmente non priva di vantaggi per il regno. Le
cose cambiarono quando scoppiò la Rivoluzione Francese e, soprattutto, quando
fu ghigliottinata Maria Antonietta, sorella della sovrana napoletana. La corte
cambiò qui la sua politica in senso decisamente reazionario e represse e
censurò con ogni mezzo tutte le nuove idee che già felicemente si stavano sviluppando
nelle nostre terre. Le classi colte finirono dunque con lo staccarsi
decisamente dalla dinastia e col guardare con sempre maggior speranza alla
Francia repubblicana le cui truppe erano giunte fino a Roma.
Terminata
questa (apparente) digressione, torniamo a dove eravamo rimasti e cioè a Ferdinando
che, sconfitto in territorio romano dai francesi, scappa in Sicilia con la
protezione degli inglesi, con la cassa e dopo aver distrutto la flotta. I
napoletani illuminati (quasi tutta la classe colta), simbolicamente, prendono
Castel S. Elmo prima ancora dell’arrivo dei francesi del generale Championnet.
Viene quindi a Napoli, il 23 gennaio 1793, proclamata la “Repubblica napoletana” con un governo provvisorio di venti membri,
appartenenti alla migliore intellettualità meridionale, e tra cui spicca tra
gli altri il grande giurista Mario Pagano, autore del progetto di una
avanzatissima Costituzione presentato ad aprile. La repubblica riesce, nei
pochi mesi di governo, ad approvare l’abolizione dei fedecommessi e del
maggiorascato e poi, solo nell’ultimo mese di vita e quindi, incolpevolmente,
senza effetti pratici, l’eversione della feudalità. Perché la Repubblica Napoletana non incontrò i
favori del popolo e perché visse un tempo così effimero? Il regno, per cause
secolari, era arretratissimo. A differenza di altri paesi europei, come per
esempio la Francia, le condizioni economiche non avevano consentito la nascita
di una corposa classe borghese (quelli che oggi chiameremmo ceti medi). In
misura maggiore che altrove, dunque, la popolazione era divisa tra uno
sterminato sottoproletariato e un’esigua minoranza di privilegiati. La
stragrande maggioranza della popolazione era dunque, non certo per sua colpa,
analfabeta e ignorante, in preda alle superstizioni; contadini vessati dai
baroni nelle campagne, plebe abituata da secoli a vivere di espedienti nelle
città e soprattutto a Napoli, terza città d’Europa per popolazione (e solo per
questo). Dunque le masse erano facilmente manovrabili dalla Chiesa, soprattutto
nelle campagne, o, come nelle città e a Napoli in particolare, pronta a
vendersi solo a chi promettesse o fornisse effettivamente piccolissimi vantaggi
personali. La ristrettissima classe che prese il potere nel 1799 proveniva in
parte dalla classe dei privilegiati (quasi gli unici, coi preti, che potevano
avere accesso agli studi) e non poteva essere
compresa dal popolo. Le casse dello stato erano vuote e il tempo a
disposizione fu pochissimo perché producesse effetti tangibili per la
popolazione. La Repubblica quindi, fatta da nobili idealisti, non poté
conquistare le masse e, con la partita dei francesi, tornati nel nord Italia
onde difendere la Francia stessa dall’ennesima offensiva della coalizione delle
potenze reazionarie, rimase pressoché inerme di fronte alle masse superstiziose
organizzate dal famigerato cardinale Ruffo ne “L’esercito di santa fede” onde
il termine di “sanfedisti” e di
fronte alla potente flotta britannica (a poco potendo l’ammiraglio repubblicano
Caracciolo essendo stata la flotta fatta affondare dal Borbone). Fu Vincenzo
Cuoco, che pure fu tra i protagonisti della esperienza repubblicana, a vedere,
già in una lucida prospettiva storica, i limiti (non superabili in quella
condizione storica data) di quella che fu una “rivoluzione passiva”, termine
poi esteso all’intero processo risorgimentale. La storia è stata vista nella
sua complessità dunque da subito, ben prima delle semplicistiche, astoriche e
ingenue a rovescio, ricostruzioni aprofessionali degli imbrattacarte neoborbonici.
Ma Napoli, come felicemente ebbe a notare il nostro grande Benedetto Croce, fu
una “Napoli nobilissima”, perché i suoi martiri quali Eleonora Pimentel
Fonseca, Pagano, Caracciolo e tutti gli altri, un’intera classe di intellettuali
di primissimo ordine, combatterono e morirono, a seguito del tradimento di un re
fellone (solo il primo di tanti altri) per abolire privilegi che erano anche
della propria classe, puri e disinteressati come in nessun angolo d’Europa,
Francia in primis, dove (giustamente) una classe in ascesa, la borghesia,
contrapponeva i propri interessi a quelli vetusti della nobiltà, del clero e
dei residui feudali. Ruffo aveva promesso a quelli che saranno considerati i
primi martiri del nostro Risorgimento salva la vita, come è noto, ma la coppia
regale non mantenne la sua promessa (solo il primo dei numerosi tradimenti di
un sovrano cialtrone).
Quello
che accadde in tutto lo stato meridionale e a Napoli, che spero di non aver mal
sintetizzato sopra, si verificò “in nuce” e in anteprima a Procida, microcosmo
di tutto quest’angolo di mondo. Fa parte della nostra storia flegrea che il bel
libro di Antonella Orefice, che vi invitiamo, noi di “Vita Flegrea”, a leggere.
Prima di terminare si vuole qui ricordare che uno dei martiri procidani del
1799 fu Antonio Scialoja, zio dell’omonimo Antonio Scialoja che fu deputato del
collegio di Pozzuoli del governo costituzionale del 1848 e poi primo deputato
flegreo nel parlamento dell’Italia unita nel 1861, già esule a Torino e poi
ministro nel 1866 allorché introdusse in Italia il “corso forzoso” della Lira.
Ma di questo parleremo più ampiamente in un altro prossimo articolo.
Procida 1799 – La rinascita degli eroi”
di Antonella Orefice (Arte Tipografica Editrice, Napoli, 2011).
Iscriviti a:
Post (Atom)