L’ANGOLO della RECENSIONE
PROCIDA 1799 – La rinascita degli eroi
La “Repubblica Napoletana” del
1799 ebbe anche qui, in terra flegrea, a Procida in particolare, i suoi
sostenitori e di conseguenza i suoi martiri, i primi in ordine cronologico,
essendo state le nostre isole i primi lembi della, purtroppo effimera,
repubblica ad essere rioccupati dai sostenitori dei Borbone, già scappati in
Sicilia, e soprattutto dagli inglesi loro alleati e all’epoca detentori di
quella che per secoli fu la più potente flotta da guerra del mondo. Nel breve periodo repubblicano di Procida (nell’isola
solo sessantaquattro giorni) è ambientato il racconto “Procida 1799 – La rinascita degli eroi” di Antonella Orefice (Arte
Tipografica Editrice, Napoli, 2011). L’autrice è in realtà una storica,
soprattutto del periodo della Repubblica del 1799 e penso la maggiore esperta
di Eleonora de Fonseca Pimentel, tra i
più famosi martiri della reazione borbonica e sanfedista. Spesso però è coi
mezzi del racconto o del romanzo che si raggiungono i migliori risultati
descrittivi di un’epoca. Marx riteneva che Balzac avesse descritto l’ascesa
della classe borghese in Francia, con la sua “Comédie humaine”, meglio di tanti
saggi e Moravia annotò qualcosa di simile a proposito del romanzo di Conrad
“Con gli occhi dell’occidente” in rapporto con gli ultimi decenni del regime
zarista in Russia. Felice pertanto la scelta, da parte dell’autrice, di
ricorrere alla forma del romanzo storico, ambientato in un’isola che conosce
bene e in un periodo storico che conosce come pochi. È la storia dell’amore tra
il notaio napoletano Bernardo Alberini (personaggio storico), commissario
repubblicano a Procida, e una misteriosa Aurora. Ma attraverso la narrazione
della loro breve storia rivivono personaggi storici procidani come Vincenzo
Assante, medico, Giacinto Calise, semplice marinaio e soprattutto di Antonio
Scialoja, colto sacerdote (quanti religiosi aderirono con convinzione alla
Repubblica!), finiti poi impiccati sulla piazza di Santa Maria delle Grazie ove
il patibolo era stato eretto sullo stesso posto ove i rivoluzionari avevano
piantato l’ “albero della libertà”, come si usava in tutti i posti toccati
dalla Rivoluzione Francese. Furono crudelmente giustiziati insieme a tanti
altri il cui nome è scolpito su di una lapide nella chiesa di Santa Maria delle
Grazie, meritoriamente eretta, in occasione del bicentenario della gloriosa
repubblica, dal Comune di Procida nel 1999. La storia della Repubblica è stata
ben descritta già dal grande Vincenzo Cuoco, uno dei protagonisti di queste
vicende, con grande acume e senza acritici elogi. Per quei lettori che
incolpevolmente, causa il decadimento degli studi e la distrazione odierna dei
media, non conoscano del tutto la storia o le cui reminiscenze scolastiche
siano un po’ arrugginite, tento di dare qui di seguito una brevissima sintesi.
Le truppe della Francia rivoluzionaria erano giunte a Roma nel 1798. I Borbone
di Napoli avevano stretto alleanza con l’Austria degli Asburgo (alla cui
famiglia apparteneva la regina Carolina). Su richiesta di Ferdinando IV a
Napoli viene il generale austriaco Mack che fu posto al comando dell’esercito
borbonico. Le truppe del Reame invasero i territori romani con la non troppo
recondita speranza ferdinandea di ampliare i confini del regno. Mack e i
Borbone subirono però una pesante sconfitta. Il “re lazzarone” (e fellone) non
trovò di meglio allora che scappare in Sicilia sotto la protezione della flotta
inglese e portando via le casse dello stato (come fossero sue proprie) non
prima di aver ordinato all’insignificante vicario che aveva lasciato a Napoli
di distruggere la flotta per evitare che cadesse in mano ai francesi. A Napoli
esisteva una corposa intellighenzia illuminista (l’illuminismo napoletano dei
vari Genovesi, Filangieri etc. fu secondo, insieme a quello milanese dei Verri
e dei Beccaria, solo a quello francese). Questi circoli culturali, fin dai
primi anni ’90 del ‘700, influenzati dalla Rivoluzione francese, evolvevano su
posizioni più decisamente rivoluzionarie anche a causa dell’involuzione in
senso radicalmente reazionario della corte napoletana. L’avvento dei Borbone,
infatti, in un primo momento significò la ritrovata indipendenza del reame dopo
secoli di predominio straniero
(semplifichiamo per motivi di sintesi), ma, soprattutto, con il primo, Carlo
(impropriamente ricordato come III) il regno si inserì sulla scia dei paesi
toccati dal “dispotismo illuminato” di quello che fu detto il “’700
riformatore”. La successiva ascesa di Carlo III al trono di Spagna,
inizialmente, non comportò involuzione nel governo del reame. Ferdinando (IV di
Napoli e III di Sicilia e poi I delle due Sicilie), come è noto, non aveva
avuto un’educazione da re. Il primogenito maschio di re Carlo (vi erano tra i
figli di questo anche delle donne, morte in tenerissima età, perché la
mortalità infantile era diffusa anche tra le famiglie regali, ma tra i Borbone
vigeva la “legge salica” che escludeva le donne dal trono) Felipe, era demente
e – pertanto – escluso dalla successione, Carlo Antonio, il secondo in linea di
successione, divenne erede al trono di
Spagna e, per i motivi casuali di cui sopra,
Ferdinando fu catapultato sul trono. La madre, Maria Amalia di Sassonia, voleva
far di lui un cardinale per cui fu destinato a una educazione religiosa e alle
cure del reazionario principe di Sannicandro. Essendo però “re nasone” nella
minore età, il regno era in realtà governato da quella che, sinteticamente, definiamo
“reggenza” del Tanucci, altro grande illuminista e uomo di fiducia del
riformatore Carlo III con cui era in stretto contatto. Anche il matrimonio con
Maria Carolina d’Asburgo, appartenente ad una famiglia di sovrani illuminati
(era figlia della grande Maria Teresa d’Austria e sorella del grande sovrano
riformatore Giuseppe II) fu inizialmente non priva di vantaggi per il regno. Le
cose cambiarono quando scoppiò la Rivoluzione Francese e, soprattutto, quando
fu ghigliottinata Maria Antonietta, sorella della sovrana napoletana. La corte
cambiò qui la sua politica in senso decisamente reazionario e represse e
censurò con ogni mezzo tutte le nuove idee che già felicemente si stavano sviluppando
nelle nostre terre. Le classi colte finirono dunque con lo staccarsi
decisamente dalla dinastia e col guardare con sempre maggior speranza alla
Francia repubblicana le cui truppe erano giunte fino a Roma.
Terminata
questa (apparente) digressione, torniamo a dove eravamo rimasti e cioè a Ferdinando
che, sconfitto in territorio romano dai francesi, scappa in Sicilia con la
protezione degli inglesi, con la cassa e dopo aver distrutto la flotta. I
napoletani illuminati (quasi tutta la classe colta), simbolicamente, prendono
Castel S. Elmo prima ancora dell’arrivo dei francesi del generale Championnet.
Viene quindi a Napoli, il 23 gennaio 1793, proclamata la “Repubblica napoletana” con un governo provvisorio di venti membri,
appartenenti alla migliore intellettualità meridionale, e tra cui spicca tra
gli altri il grande giurista Mario Pagano, autore del progetto di una
avanzatissima Costituzione presentato ad aprile. La repubblica riesce, nei
pochi mesi di governo, ad approvare l’abolizione dei fedecommessi e del
maggiorascato e poi, solo nell’ultimo mese di vita e quindi, incolpevolmente,
senza effetti pratici, l’eversione della feudalità. Perché la Repubblica Napoletana non incontrò i
favori del popolo e perché visse un tempo così effimero? Il regno, per cause
secolari, era arretratissimo. A differenza di altri paesi europei, come per
esempio la Francia, le condizioni economiche non avevano consentito la nascita
di una corposa classe borghese (quelli che oggi chiameremmo ceti medi). In
misura maggiore che altrove, dunque, la popolazione era divisa tra uno
sterminato sottoproletariato e un’esigua minoranza di privilegiati. La
stragrande maggioranza della popolazione era dunque, non certo per sua colpa,
analfabeta e ignorante, in preda alle superstizioni; contadini vessati dai
baroni nelle campagne, plebe abituata da secoli a vivere di espedienti nelle
città e soprattutto a Napoli, terza città d’Europa per popolazione (e solo per
questo). Dunque le masse erano facilmente manovrabili dalla Chiesa, soprattutto
nelle campagne, o, come nelle città e a Napoli in particolare, pronta a
vendersi solo a chi promettesse o fornisse effettivamente piccolissimi vantaggi
personali. La ristrettissima classe che prese il potere nel 1799 proveniva in
parte dalla classe dei privilegiati (quasi gli unici, coi preti, che potevano
avere accesso agli studi) e non poteva essere
compresa dal popolo. Le casse dello stato erano vuote e il tempo a
disposizione fu pochissimo perché producesse effetti tangibili per la
popolazione. La Repubblica quindi, fatta da nobili idealisti, non poté
conquistare le masse e, con la partita dei francesi, tornati nel nord Italia
onde difendere la Francia stessa dall’ennesima offensiva della coalizione delle
potenze reazionarie, rimase pressoché inerme di fronte alle masse superstiziose
organizzate dal famigerato cardinale Ruffo ne “L’esercito di santa fede” onde
il termine di “sanfedisti” e di
fronte alla potente flotta britannica (a poco potendo l’ammiraglio repubblicano
Caracciolo essendo stata la flotta fatta affondare dal Borbone). Fu Vincenzo
Cuoco, che pure fu tra i protagonisti della esperienza repubblicana, a vedere,
già in una lucida prospettiva storica, i limiti (non superabili in quella
condizione storica data) di quella che fu una “rivoluzione passiva”, termine
poi esteso all’intero processo risorgimentale. La storia è stata vista nella
sua complessità dunque da subito, ben prima delle semplicistiche, astoriche e
ingenue a rovescio, ricostruzioni aprofessionali degli imbrattacarte neoborbonici.
Ma Napoli, come felicemente ebbe a notare il nostro grande Benedetto Croce, fu
una “Napoli nobilissima”, perché i suoi martiri quali Eleonora Pimentel
Fonseca, Pagano, Caracciolo e tutti gli altri, un’intera classe di intellettuali
di primissimo ordine, combatterono e morirono, a seguito del tradimento di un re
fellone (solo il primo di tanti altri) per abolire privilegi che erano anche
della propria classe, puri e disinteressati come in nessun angolo d’Europa,
Francia in primis, dove (giustamente) una classe in ascesa, la borghesia,
contrapponeva i propri interessi a quelli vetusti della nobiltà, del clero e
dei residui feudali. Ruffo aveva promesso a quelli che saranno considerati i
primi martiri del nostro Risorgimento salva la vita, come è noto, ma la coppia
regale non mantenne la sua promessa (solo il primo dei numerosi tradimenti di
un sovrano cialtrone).
Quello
che accadde in tutto lo stato meridionale e a Napoli, che spero di non aver mal
sintetizzato sopra, si verificò “in nuce” e in anteprima a Procida, microcosmo
di tutto quest’angolo di mondo. Fa parte della nostra storia flegrea che il bel
libro di Antonella Orefice, che vi invitiamo, noi di “Vita Flegrea”, a leggere.
Prima di terminare si vuole qui ricordare che uno dei martiri procidani del
1799 fu Antonio Scialoja, zio dell’omonimo Antonio Scialoja che fu deputato del
collegio di Pozzuoli del governo costituzionale del 1848 e poi primo deputato
flegreo nel parlamento dell’Italia unita nel 1861, già esule a Torino e poi
ministro nel 1866 allorché introdusse in Italia il “corso forzoso” della Lira.
Ma di questo parleremo più ampiamente in un altro prossimo articolo.
Procida 1799 – La rinascita degli eroi”
di Antonella Orefice (Arte Tipografica Editrice, Napoli, 2011).
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